Non c’è niente di meglio che ascoltare in sottofondo le note di Ludovico (Einaudi)
e lasciarsi trasportare dai pensieri.
Nel particolare una sua opera mi ricorda Herling, il mio amato scrittore polacco.
Herling sovente ha affrontato il tema della morte nei suoi scritti, a volte direttamente trattandola quasi come una quaestio filosofica, a volta riconducendola a personali eventi drammatici, ma senza mai drammatizzarla o lasciare che questa lo superasse, lo sconfiggesse, lo annientasse come avvenne ad altri superstiti dell’orrore che nega e annega la vita.
Ma non è delle esperienze feroci, crudeli e disumane vissute da quanti
hanno conosciuto gulag e campi di concentramento che voglio parlare perché sono, questi, argomenti che meritano un’attenzione particolare, non la sosta serale di un momento.
Voglio parlare più in generale del senso della morte che tutti, probabilmente, abbiamo.
Quando si pensa alla morte generalmente si pensa alla morte come entità astratta, altra, da venire, la morte di tutti, morte necessaria, morte come ricorrente storico.
Di rado, e solo in alcune situazioni, si pensa alla propria morte.
Propria morte non come ‘circostanza’, ma come evento in sé, naturale, inalienabile,
indeterminabile e necessario. La riflessione conduce, successivamente, al pensiero esclusivo di cosa si lascia, se davvero qualcosa si vuole lasciare.
Molti di noi hanno figli, ecco cosa lasciano, persone che ricorderanno e tramanderanno lo stesso ricordo, che custodiranno nella loro mente, nei loro sentimenti, quello che siamo stati e come lo siamo stati.
Ma chi non ha nessuno cosa lascia? Chi non ha figli e non ha affetti particolari che lo attendano a casa cosa lascia negli altri, in quanti lo hanno conosciuto, in quanti lo hanno umanamente amato senza scendere mai nel particolare di un affetto esclusivo?
Di questo discutevo qualche giorno fa con un amico, anche lui senza figli e senza una propria famiglia costituita da figli e una compagna.
Uno che si potrebbe definire un single, single almeno in apparenza, sulla carta come si suole dire e per onorare assurde etichette, ma non single dentro.
Da quella conversazione è nata una poesia, come al solito avrei voluto scrivere un breve racconto, non m’è riuscito, come al solito.
Ed è nata questa cosa, che a mio modo chiamo figlia, forse qualcosa che è realmente possibile lasciare, assieme a tante altre figlie.
O forse è solo un’illusione di mancato oblio, anche questa.
Sottolineo, ma senza voler pensare che sia necessario farlo, che genitori, fratelli, sorelle, amici ed altri affetti indissolubili costituiscono ulteriori (le principali) famiglie altrettanto importanti, ma non quel particolare ‘nucleo’ di affettività esclusive che si fonda e si realizza anche , e grazie, al progetto del dopo.
Rotte verso
Il senso della vita
per gli altri vediamo
nei figli, negli affetti “realizzati”,
nei progetti da progettare,
negli impegni da onorare,
nella devozione costante
per quel viaggiare.
A noi che non resta
che il giorno tocca
consolarci con qualcosa,
singolarmente o assieme
nei momenti distanti
in cui “siamo” vale
“altrove” e “dimenticare”.
Tu vorresti
nel tuo fumo di ossa
spalancato il sogno
di un futuro seme o fiore
o albero di strada
qualsiasi, ma qualcosa
da lasciare e tramandare
almeno. Io non so,
saluto il caso e mi dimentico
di quel saluto ogni giorno.
Finge di vivere
chi pensa alla morte
distrattamente.